Colors of life, colors of death

Erano gli stessi colori che avevo visto fin dai primi giorni. Erano gli stessi colori che mi avevano colpito per la loro evidente presenza, per la loro voce forte e impossibile da non sentire.

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Erano quei colori che trovavi un pò dappertutto, dalle mura delle abitazioni dipinte a tinte vivaci, alle strade di terra polverose e rosse, al verde della vegetazione in questo periodo di inizio della stagione delle piogge. Erano gli stessi colori che rendevano così particolari e in qualche modo, per contrasto, ancora più interessanti i volti di uomini e donne che incontravi nelle città ma più ancora nelle campagne.

Eppure..

Quegli abiti avevano gli stessi timbri, toni, geometrie, disegni, pattern. Di nuovo trovai che parlavano a modo loro di questa terra d’Africa, e di questo paese in particolare, delle sue tradizioni, della sua musica, danze. Della sua vita.

Eppure tutto era diverso, qui a Ntarama.

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Quei colori erano stati accesi, forti, evidenti, carichi di energia. Lo si vedeva certo, si capiva come fossero stati così prima che tutto accadesse. Prima che su di loro si stendesse un velo di sofferenza tale da scioglierli, sporcarli, lacerarli, svuotarli, annullarli. La polvere della terra, la sofferenza e il sangue, il tempo e l’odio, l’indifferenza e la morte. Tutto questo si era accumulato su quegli abiti quasi irriconoscibili, su quelle vesti ormai diventati un sudario per quelle donne, uomini, bambini, che avevavno cercato rifugio nella chiesa.
Tutto in un giorno, tutto insieme all’improvviso. tutto era esploso, dopo essere stato preparato e perpetrato per lunghissimo tempo sotto gli occhi indifferenti di tutti.
Tutto in un giorno, tutto all’improvviso il mondo era esploso, quei colori si erano sporcati e macchiati di sangue e di terra.

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Pendevano ora dal soffitto questi abiti. Silenziosi si stendevano sgualciti e logori verso terra, senza poterla raggiugere o sfiorare.
Il silenzio della chiesa ricostruita e trasformata in santuario si confondeva con la luce che filtrava dalle finestre con i vetri rotti e dalla porta principale.
Le bare allineate con cura e rispetto per quanto possibile in un luogo troppo piccolo per contenerle tutte. Ciascuna a racchiudere i resti di tanti che non avevano più neppure un nome ed erano cmpletamente scomparsi dalla storia del paese. Alcune migliaia, quello che ne restava, racchiuso in quelle casse di legno chiaro coperto da teli bianchi con una croce viola.

Ben allineati e ordinati su una sorta di scaffale appoggiato alla parete subito all’entrata, centinaia di teschi piccoli e grandi. Le altre ossa, quello che ne rimaneva, nella parte pià bassa dello scaffale.
La luce del giorno entrava dalla porta principale ed illuminava quei teschi e quelle ossa. Ti fermavi un attimo ad osservarle, in silenzio, senza poter realisticamente capire come fosse possibile trovarsi di fronte a tutto questo e come tutto questo fosse potuto accadere. Erano ordinatamente disposti in file e colonne su vari ripiani, quei teschi. Notavi subito la dimensione di molti, e capivi si trattava di bambini. In molti, erano evidenti i punti in cui erano stati sfondati. D’altra parte era sufficiente voltarsi per vedere alcuni degli strumenti che erano stati usati per tutto questo, e potevi immaginare di quale si trattasse tra quelli. Arrugginiti ed impolverati se ne stavano appoggiati ad una parete, quasi fossero normali oggetti dimenticati e quindi accantonati.

 

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